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Warfare – Tempo di guerra, la recensione: il volto crudo del conflitto in prima linea

Warfare – Tempo di guerra, l’umanità sotto il fuoco nel film scritto e diretto da Alex Garland e Ray Mendoza.

Il cinema di guerra è da sempre uno dei generi più complessi e stratificati della settima arte, capace di riflettere lo spirito del tempo attraverso il racconto del conflitto. Dalle epopee spettacolari come Il ponte sul fiume Kwai (1957) o Patton (1970), che celebravano l’eroismo e il comando, ai grandi affreschi corali come Salvate il soldato Ryan (1998) di Steven Spielberg o La sottile linea rossa (1998) di Terrence Malick, il genere ha assunto forme diverse per raccontare non solo la guerra, ma anche le idee che la giustificano o la condannano.

Negli ultimi decenni, tuttavia, il cinema bellico ha iniziato a spostarsi in una direzione opposta: se un tempo tendeva a esaltare l’eroismo e il sacrificio, oggi sempre più spesso ne analizza l’ambiguità morale, il senso stesso, le conseguenze psicologiche e l’imbarbarimento. Film come The Hurt Locker (2008) di Kathryn Bigelow, Restrepo (2010) di Tim Hetherington e Sebastian Junger, o Come and See (1985) di Elem Klimov si sono concentrati soprattutto sulle fratture interiori e sulle zone d’ombra dell’esperienza militare.

Un solco in cui si inserisce Warfare – Tempo di guerra, scritto e diretto da Alex Garland e Ray Mendoza, che, coinvolgendo lo spettatore su un piano sensoriale, etico e mentale, si afferma come uno degli esempi più radicali e potenti di questa nuova prospettiva.

Un film sulla guerra che non cerca eroi

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Presentato in anteprima nazionale al Taormina Film Festival, Warfare – Tempo di guerra, nelle sale italiane dal 21 agosto distribuito da I Wonder Pictures, è il frutto dello sguardo registico del britannico Alex Garland e l’esperienza diretta dell’ex Navy SEAL Ray Mendoza, che, fondendo la lucidità analitica del cinema con la brutalità vissuta in prima persona, dà forma a un racconto atipico, spietato e profondamente umano, capace di sfuggire tanto agli stereotipi patriottici quanto alla spettacolarizzazione del conflitto.

Ambientato nel 2006 a Ramadi, una delle città più devastate e strategicamente cruciali dell’Iraq post-invasione, Warfare – Tempo di guerra, concentrandosi su un arco temporale ristretto — percepito come un’eternità scandita da imboscate, assalti mirati, ricognizioni e tensioni costanti — ci trascina nel cuore dell’inferno quotidiano affrontato da un’unità speciale dei Navy SEAL, la stessa in cui ha servito Mendoza, incaricata di neutralizzare cellule jihadiste in un contesto totalmente destabilizzato.

Fin dalle prime inquadrature, il film si impone come un’esperienza immersiva e implacabile: ogni angolo trasuda pericolo, ogni silenzio è un presagio, ogni sparo ha un impatto e ogni scontro è sopravvivenza, non spettacolo. Si cammina fianco a fianco con i protagonisti, condividendone l’ansia, la pressione mentale, il peso dell’equipaggiamento, il fiato corto, la paura. Le strade non sono semplici ambientazioni, ma presenze vive, i cui muri nascondono cecchini, e le cui porte si trasformano in trappole esplosive.

La sceneggiatura, cruda e asciutta quanto le immagini, rinuncia a ogni retorica e semplificazione: nessuna voce narrante, nessun flashback strappalacrime, nessun patriota esemplare. I protagonisti sono uomini consumati da una quotidianità fatta di attese e nervi tesi. Un mosaico essenziale di gesti, rituali e segnali impliciti che raccontano più di mille battute, esaltato dalla fotografia iperrealista di Rob Hardy, che alterna la luce lattiginosa e granulosa degli esterni alla penombra angusta e opprimente degli interni, e da una colonna sonora ridotta al metallo delle armi, alle comunicazioni radio distorte, al ronzio dei droni, all’eco improvviso degli spari.

I suoni della guerra, parte integrante del racconto, non accompagnano, ma irrompono, avvertono e inghiottono nel disordine delle azioni e degli schemi militari, i quali non vengono spiegati né semplificati, ma appresi sul campo insieme ai soldati, grazie alla tecnica della ripresa con carrello nota come dolly shot. Questo approccio, già utilizzato da Garland in Ex Machina (2015) e Annihilation (2018), e che in Civil War (2024) cede il passo alla macchina da presa a mano, si basa su un movimento fluido, preciso e controllato, che enfatizza i personaggi e l’ambiente, restituendo un’autenticità disarmante e un impatto psicologico viscerale, che avvolge lo spettatore e impone uno sguardo attivo e partecipe. La guerra non si osserva da lontano: la si assorbe in prima linea.

Il vero fulcro del film, però, non è la missione, bensì il gruppo. Il legame tra i componenti dell’unità si sviluppa nel non detto, negli sguardi e nelle battute taglienti, con una fratellanza non idealizzata, ma mostrata per ciò che è: una condizione di necessità, un vincolo fragile e indispensabile, una vulnerabilità condivisa che si manifesta nei momenti sospesi, in cui il tempo sembra fermarsi. Pause dense, dove affiora la lenta disumanizzazione, l’impossibilità di elaborare ciò che accade e lo sgretolarsi dell’identità.

Il coinvolgimento emotivo è totale: non ci sono distanze, né certezze, ma solo domande brucianti. Quanto costa davvero una missione “riuscita”? Dove termina il senso del dovere e dove comincia l’assuefazione alla violenza? Cosa resta dei soldati al ritorno? E quale responsabilità ricade sulle istituzioni nel riconoscere e affrontare ciò che quei corpi e quelle menti hanno sopportato?

Quesiti che non trovano risposte, ma che il film incide in modo implacabile con un finale privo di consolazione, che lascia una sensazione sospesa, come una ferita ancora aperta: la guerra nella sua nudità, nel suo orrore quotidiano, nella brutalità che non si esaurisce. Non ci sono inni né riconoscimenti: solo stanchezza, polvere e sguardi svuotati.

Warfare – Tempo di guerra non è un semplice film sulla guerra: è la guerra stessa. Non la racconta, la fa sentire senza filtri e senza scuse. Garland e Mendoza non costruiscono un’opera da ammirare, ma un’esperienza che resta addosso, che brucia dentro e ti costringe a guardare in faccia ciò che preferiremmo ignorare. Qui non ci sono vincitori né vinti: solo esseri umani esposti all’abisso, fragili testimoni di un orrore che non finisce mai del tutto. E quando scorrono i titoli di coda, cala un silenzio pesante, scomodo, impossibile da scrollarsi di dosso.

©Riproduzione Riservata

Emanuela Giuliani

Il Voto della Redazione:

8


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