Wicked – Parte Due è un trionfo visivo, ma manca di profondità emotiva: scenografie e colori splendono, le emozioni faticano a emergere.
Dopo l’enorme successo mondiale di Wicked – Parte Uno, il regista Jon M. Chu conclude la sua epopea musicale con Wicked – Parte Due, in arrivo nelle sale cinematografiche italiane dal 9 novembre, distribuito da Universal Pictures. Se però la prima parte aveva conquistato pubblico e critica con la sua epicità e il suo trasporto, questo tanto atteso capitolo finale non riesce purtroppo a raggiungere lo stesso livello.
Pur continuando a raccontare il ‘prima’ di Il Mago di Oz da una prospettiva nuova, Chu di fatto costruisce un racconto in cui amicizia, verità e potere finiscono spesso sullo sfondo, trattati con troppa fretta e lasciando molti spunti fondamentali solo accennati, incapaci di dare voce alle forze profonde che plasmano e muovono i destini di Oz.
Un’amicizia che avrebbe dovuto fare la differenza
Il cuore della storia resta, ovviamente, il legame tra Elphaba e Glinda, simbolo di amicizia, fedeltà e confronto con se stessi. La frase simbolo: “In qualunque modo finiscano le nostre storie, so che tu hai riscritto la mia essendomi amica”, avrebbe potuto rappresentare uno dei momenti più toccanti dell’intero film, invece, arriva senza un vero crescendo, con la sensazione che manchi ciò che avrebbe potuto dare il giusto peso al percorso, personale e condiviso, delle due protagoniste.
La loro evoluzione appare superficiale, priva delle sfumature necessarie a renderla credibile e coinvolgente. L’idea di un legame capace di resistere al tempo, alle menzogne e alle divisioni sociali è potente, ma la messa in scena lo relega spesso ai margini semplicemente suggerendolo, privilegiando la spettacolarità ai sentimenti, e trasformando un’amicizia significativa in qualcosa di poco sentito sullo schermo.
Ciò che non riesce davvero a emergere è la loro crescita reciproca: come Elphaba acquisisca consapevolezza della propria identità nonostante le sue paure, e come Glinda, nonostante tutto, scopra la vera forza dietro la luce apparente.
Un intreccio di fiducia, sostegno e attrito che, se fosse stato approfondito, le avrebbe davvero consacrate in modo iconico, e nonostante Chu provi a dare forma a questa dualità — Elphaba, eroina tragica che rifiuta di piegarsi alle convenzioni, e Glinda, luminosa ma tormentata dalla propria fragilità morale — le emozioni vengono solo sfiorate. Le scene introspettive non restituiscono la complessità dei rispettivi conflitti interiori, e persino gli sguardi, che dovrebbero parlare da soli, si dissolvono senza lasciare traccia.
Un vuoto che nemmeno la magnetica Cynthia Erivo riesce a colmare con la sua Elphaba: intensa, capace di trasmettere rabbia, coraggio e vulnerabilità persino nei silenzi. Ariana Grande, nei panni di Glinda, invece, a differenza della prima parte in cui aveva brillato per freschezza e sincerità, pur mostrando dolcezza e sensibilità oscilla tra momenti autentici e altri più manierati, riducendo così l’impatto complessivo del suo personaggio.
La necessità di un “cattivo” e la leggenda incompleta
Tra i temi più interessanti del film però, c’è l’idea che ogni storia, per funzionare, ha bisogno di un cattivo. Elphaba diventa la Strega Malvagia non perché lo sia realmente, ma perché la società di Oz ha bisogno di qualcuno su cui riversare paure, errori e frustrazioni. Una riflessione potente e attuale sul modo in cui nascono i miti negativi, il potere manipoli la percezione pubblica, e quanto sia facile trasformare qualcuno in un mostro quando le persone cercano un capro espiatorio.
Una dinamica che avrebbe senza dubbio donato maggiore spessore alla narrazione, mostrando più da vicino come istituzioni, propaganda e masse contribuiscano alla costruzione di un “nemico comune”, ma alla quale viene dedicato troppo poco spazio, così ciò che poteva diventare una critica sociale incisiva rimane, ancora una volta, sullo sfondo.
Anche il passaggio di Elphaba al ruolo di “cattiva” avviene in modo repentino, senza la sofferenza necessaria a renderlo veramente tangibile. A rafforzare questa superficialità nei confronti del condizionamento collettivo contribuisce l’arrivo di Dorothy e dei suoi compagni: lo Spaventapasseri, l’Uomo di latta e il Leone fifone. La loro presenza, invece di segnare il momento decisivo in cui la visione passa dal mito alla realtà, viene ridotta a un semplice ponte tra i due mondi, privando la leggenda del tassello che le avrebbe attribuito profondità e significato.
A offrire un interessante contrappunto, però, è il Fiyero di Jonathan Bailey, la cui capacità di osservare il mondo senza filtri e libero da pregiudizi gli permette di scorgere la verità nascosta dietro lo scintillio delle apparenze. Superando le convenzioni Fiyero diventa uno specchio per Elphaba, invitando a resistere a imposizioni e stereotipi, a credere nei legami autentici, e riportando alla leggenda di Oz quel briciolo di speranza e umanità che il film fatica a far percepire.
Bellezza visiva senza cuore narrativo
Wicked – Parte Due continua a stupire con la magia di una pioggia di colori che trasporta il pubblico in un caleidoscopio suggestivo, dove le scenografie imponenti di Nathan Crowley creano paesaggi da sogno, i costumi ricercati firmati da Paul Tazewell trasformano ogni personaggio, la fotografia vibrante di Alice Brooks cattura ogni dettaglio, e le coreografie mozzafiato di Christopher Scott animano la scena con energia. Una cura e un’attenzione che confermano la maestria di Jon M. Chu nel far convivere tutti questi elementi.
Eppure, nonostante questa perfezione formale, il film non lascia un’impronta emotiva altrettanto forte. La sensazione è quella di un racconto incompleto, che racchiude la leggenda di Oz in immagini bellissime, ma distanti: affascinano, sì, ma non commuovono come ci si aspetterebbe.
Wicked – Parte Due è quindi un trionfo visivo, ma senza la profondità emotiva e la coesione narrativa che avevano reso speciale la prima parte, restando un’esperienza grandiosa per gli occhi, ma meno per il cuore.
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Emanuela Giuliani
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