Non essere cattivo, è il ritratto crudele della periferia romana e il testamento artistico e umano di Claudio Caligari.
Crudo, struggente, autentico fino all’ultimo respiro. Non essere cattivo non è solo l’ultimo film di Claudio Caligari: è il suo testamento artistico e umano, un grido potente lanciato dalle periferie romane contro l’indifferenza e la marginalità. Regista schivo ma radicale, Caligari ha saputo raccontare come pochi altri il disagio giovanile e il degrado sociale, costruendo un cinema senza filtri, capace di colpire allo stomaco e al cuore.
Presentato fuori concorso alla 72ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il film rappresenta il culmine di una carriera coerente e coraggiosa, conclusione ideale di una trilogia iniziata con Amore tossico (1983), manifesto della tossicodipendenza giovanile degli anni ’80, e proseguita con L’odore della notte (1998), racconto spietato del crimine e della deriva morale.
Girato mentre il regista era gravemente malato, Non essere cattivo è un’opera intensa e profondamente umana, ambientata a Ostia nel 1995, tra rave, droga, sogni infranti e amicizie salvifiche. È la storia di chi lotta per uscire dal fango ma spesso ci affonda, di chi cerca la redenzione pur sapendo che il riscatto è quasi impossibile, ma soprattutto, è l’ultimo atto di un autore che ha scelto di restare fino alla fine accanto agli ultimi, raccontandoli con uno sguardo lucido, compassionevole e mai retorico.
La vicenda segue Vittorio (Alessandro Borghi) e Cesare (Luca Marinelli), due trentenni cresciuti come fratelli nella periferia di Ostia, immersi in una vita fatta di droga, violenza e autodistruzione. Quando Vittorio ha un’epifania dopo un trip pesante, decide di cambiare: lascia la droga, trova lavoro nell’edilizia e inizia una relazione con Linda, cercando di costruire un futuro diverso.
Cesare, invece, rimane intrappolato nel passato, nonostante un iniziale tentativo di seguire l’amico, è sopraffatto dalle responsabilità familiari e dai traumi, soprattutto dopo la morte improvvisa della nipotina Debora. Ricade nella tossicodipendenza. Vittorio prova ad aiutarlo, ma ogni sforzo fallisce.
Il film si chiude amaramente con la morte di Cesare per overdose, Vittorio, sconvolto, decide di prendersi cura del figlio dell’amico, un gesto che incarna il senso del film: spezzare il ciclo della marginalità attraverso piccoli atti di amore e responsabilità. Non c’è redenzione piena, solo una fragile speranza.
Periferia, dipendenza e umanità
Nel cuore del film troviamo la storia di Vittorio e Cesare, due ragazzi cresciuti come fratelli nelle borgate romane. La loro relazione è più che un legame affettivo: rappresenta l’unico punto fermo in un’esistenza segnata dall’instabilità, dall’assenza di riferimenti familiari solidi e da un contesto sociale opprimente. L’amicizia tra i due non è idealizzata, ma è reale, sporca, a volte tossica, eppure indispensabile. Caligari costruisce attraverso di loro un racconto di fratellanza che resiste anche ai tentativi di emancipazione individuale: quando uno cerca di salvarsi, inevitabilmente cerca di portare con sé anche l’altro. È un legame che salva e condanna, che unisce ma può anche trascinare a fondo.
Come già in Amore tossico, la droga è centrale nel film, ma assume una valenza più profonda rispetto al passato, non è più solo l’effetto di un malessere giovanile o sociale, ma diventa una metafora della paralisi di un’intera generazione, incapace di immaginare un futuro diverso. Cesare, personaggio tragico e profondamente umano, rappresenta chi non riesce a liberarsi dal proprio passato, dalle proprie abitudini, dai traumi che lo definiscono. Il suo ritorno all’eroina dopo la morte della nipotina Debora è la dimostrazione di quanto la dipendenza non sia solo chimica, ma emotiva, culturale, ambientale. La droga è la risposta facile in un mondo che non offre alternative, è l’unico anestetico contro un dolore troppo grande per essere affrontato a viso aperto.
Ostia, nel 1995, non è solo lo sfondo della storia: è un vero e proprio personaggio invisibile, una presenza che condiziona ogni scelta dei protagonisti. Le strade polverose, i palazzi fatiscenti, i locali notturni e le spiagge abbandonate restituiscono l’immagine di un’Italia dimenticata, dove la marginalità è la norma. In questo senso, Caligari si inserisce nella scia pasoliniana, ma ne segna anche il superamento. Se per Pasolini la borgata era un luogo di autenticità e resistenza culturale, per Caligari essa è ormai un territorio devastato, dove l’identità proletaria si è dissolta, sostituita da una cultura della sopravvivenza e della sconfitta. La sua visione è amara, ma realista: non c’è più spazio per le utopie, solo per i tentativi individuali di resistere.
Vittorio incarna quel piccolo spiraglio di speranza che attraversa l’intera vicenda. Dopo un’esperienza di allucinazioni provocate da un mix di droghe, decide di cambiare vita: trova un lavoro come operaio edile, cerca una stabilità affettiva, costruisce una nuova famiglia, ma il percorso verso la “normalità” non è lineare, né garantito. L’ambiente continua a trascinarlo indietro, e il legame con Cesare lo espone costantemente al rischio di ricadute, la redenzione, per Caligari, è una conquista fragile, sempre in bilico tra regressione e speranza. La decisione di Vittorio di crescere il figlio dell’amico morto è un atto d’amore e di responsabilità che chiude il film con una nota simbolica: un passaggio generazionale, un tentativo di interrompere il ciclo della marginalità.
Fratellanza, degrado e redenzione
Non essere cattivo si impone come un film essenziale nel panorama del cinema italiano contemporaneo, non solo per la sua qualità artistica, ma anche per la sua potenza testimoniale. È un’opera che non cerca di compiacere lo spettatore, ma che lo mette di fronte a una realtà scomoda, spesso ignorata, mostrando il lato oscuro della società con uno sguardo limpido, compassionevole ma mai retorico. Caligari racconta gli ultimi, ma lo fa con dignità e rispetto, restituendo loro una voce autentica e intensa. I suoi personaggi non sono caricature, ma esseri umani fragili, complessi, a volte contraddittori, come chiunque di noi.
Il film, scelto per rappresentare l’Italia agli Oscar 2016 come miglior film straniero (senza tuttavia entrare nella short-list finale), ha ottenuto un consenso unanime dalla critica e ha conquistato un pubblico ampio, soprattutto tra i giovani e tra coloro che riconoscono in quella realtà una parte della propria vita. La pellicola è divenuta in breve tempo un cult generazionale, capace di parlare al presente pur ambientandosi nel passato.
Dal punto di vista culturale, Non essere cattivo ha avuto il merito di riaprire il dibattito sulle condizioni delle periferie italiane, sul fallimento delle politiche sociali, e sulle difficoltà concrete che incontrano coloro che vogliono uscire da un contesto segnato dalla devianza. La riflessione sul disagio giovanile, sulla tossicodipendenza, sull’abbandono delle istituzioni e sull’importanza dei legami affettivi come ancora di salvezza è oggi più attuale che mai.
In definitiva, l’ultimo film di Caligari è molto più di una semplice narrazione di borgata: è un atto d’amore verso chi è ai margini, un grido di dolore e di speranza insieme. E proprio per questo, continua a risuonare forte, anche anni dopo la sua uscita.
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Emanuela Giuliani