Women Talking, la recensione: se tutte le donne potessero parlare

WOMEN TALKING, la recensione del film scritto e diretto da Sarah Polley, nelle sale cinematografiche italiane dall’8 marzo.

Se guardiamo al percorso registico e autoriale di Sarah Polley ci accorgiamo che dieci anni separano Stories We Tell, presentato in anteprima alla 69esima edizione del Festival di Venezia, dall’ultimo lavoro della regista, Women Talking, presentato invece al Telluride Film Festival il 2 settembre dell’anno appena passato.

Dieci lunghi anni che sono stati terreno di importanti cambiamenti, soprattutto dal punto di vista culturale e sociale, e che Polley ha potuto osservare per poter maturare lo sguardo ideale per narrare la storia raccolta in Donne che parlano, romanzo del 2018 a firma di Miriam Twoes dove la scrittrice riporta i terribili eventi che hanno scosso la colonia di Manitoba in Bolivia, nel 2011.

Tratto da una terribile storia vera

In una colonia mennonita che sembra isolata dal resto del mondo e dal tempo stesso, le donne e le ragazze che vi abitano (tutte non secolarizzate, per scelta condivisa) fanno una scioccante scoperta: gli uomini del villaggio sono soliti abusare del loro corpo dopo averle indotte in stato di incoscienza mediante l’utilizzo di narcotici per bovini, manipolando le loro vite. I violentatori vengono arrestati e mandati in una città vicina per scontare la pena che spetta loro, ma ciò che segue è quasi peggiore dell’ingiustizia subita. La maggior parte degli uomini della colonia, infatti, deciderà di viaggiare per sovrintendere alla cauzione. Le donne saranno lasciate sole con le proprie famiglie, ma utilizzeranno i due giorni a disposizione per riunirsi in un plebiscito e decidere cosa fare: rimanere e non fare nulla? Rimanere e combattere? Oppure andare via, e lasciarsi tutto alle spalle?

Educazione è potere, ma non basta

Women Talking parte da un assunto: è importante che l’analfabetismo delle donne di una comunità sia e resti immutata affinché ci si possa assicurare il controllo sulle loro esistenze, ma non è sufficiente. No, perché affinché il pieno potere su una donna possa preservarsi è altrettanto cruciale che vi sia una volontà, una motivazione così incrollabile da necessitare un sistema ben congegnato, cui tutti gli uomini sono chiamati a prendere parte.

Ciò che è accaduto a Manitoba, trascritto attraverso il linguaggio cinematografico in una dimensione atemporale e indefinita, è terrificante perché esemplare: oltre a un’intenzionalità c’è un pattern, una serie di comportamenti che si reitera e che è possibile reiterare per mezzo della complicità di ogni uomo, anche di coloro che non compiono direttamente il crimine, e per mezzo della protezione che è reciprocamente garantita a prescindere da ogni possibile esito. Eppure Polley, adottando la prospettiva delle donne e delle vittime (e mai quella dei carnefici), restituisce allo spettatore un’angolatura sulle vicende che è insieme parziale e bastante, agghiacciante ed essenziale nell’attenta misurazione di cosa viene esibito e cosa viene invece celato.

Ciò che è nascosto è l’atto brutale vero e proprio, che vincolerebbe la rappresentazione del trauma al farsi vetrina degli orrori, sfoggio grafico e controproducente del dolore, e che obbligherebbe i personaggi centrali a rivestire il ruolo costrittore della vittima. Invece le donne di Polley parlano, si emancipano da quell’unilateralità e diventano portatrici di idee, di visioni, di valori. Non importa che l’opinione di una vada a scontrarsi con quella di un’altra: è previsto, anzi, richiesto che accada ciò affinché per l’autrice sia possibile tessere un multiritratto femminile realistico, fatto di coscienze salde e allo stesso tempo contraddittorie, bisognose di esplorare nuove strade per poi tornare a quella iniziale o variare percorso del tutto.

In una sperimentazione teorica che trova nel kammerspiel il suo luogo di rappresentazione ideale, la regista ipotizza che in quei due giorni a disposizione alle donne sia concesso possedere il grado d’istruzione che a loro è stato negato per volere altrui: ne consegue un dibattito accorato, perfettamente ritmato e ipnotico, in cui la collera protofemminista di Claire Foy si fronteggia con la rabbia più grezza di Jessie Buckley e contro la razionalità filosofica di Rooney Mara e contro i propositi di altre (interpretate tutte da un cast in stato di grazia).

In Women Talking il sesso maschile è fuori campo e ciò che se ne evince è la predeterminazione nel compiere il male (eccetto nel caso dell’unico uomo buono, guarda caso a servizio delle donne: quello interpretato dal bravissimo Ben Whishaw), ma non lo si critichi a Polley. La sua opera non vuole raffigurare i rapporti fra due fazioni, né alludere all’impossibilità di scendere a patti. È scopo primario, piuttosto, quello di disegnare un’allegoria politica e sociale d’immediata comprensione che indaga i “what if” della storia dell’umanità. Cosa accadrebbe se: se tutte le donne possedessero gli strumenti per modellare un punto di vista, al di là di un mondo che non ne fornisce di eguali; se tutte le donne possedessero il privilegio di scegliere; se tutte le donne possedessero il privilegio di parlare; in quale mondo vivremmo, in questo caso?

Leggi anche: Women Talking: lo script completo

© Riproduzione Riservata

Federica Cremonini

Il Voto della Redazione:

7


Pubblicato

in

da

Tag: