Cate Blanchett sorride mentre dirige l'orchestra

Tár, recensione: il linguaggio del potere

Stupisce che un film come “Tár”, che Todd Field ha concepito a distanza di ben quindici anni dal suo ultimo film (“Little Children”), abbia ottenuto così tante candidature – e per i più ambiti premi – agli Oscar di quest’anno.

Stupisce per tante ragioni, ma la prima e più immediata è il suo essere sfacciatamente elusiva quando solleva questioni scottanti e nega, allo stesso tempo, una certezza unilaterale nella risposta che vi fornisce, affermando la complessità insita nella realtà. E nell’essere umano, che adotta la strategia della semplificazione per sopravvivenza.

Cate Blanchett in primo piano

Lydia Tár (Cate Blanchett) è una delle più importanti compositrici e direttrici d’orchestra. Anzi, è la prima direttrice d’orchestra della filarmonica di Berlino, sebbene ci tenga a essere chiamata “direttore”. Fra i tantissimi progetti che la vedono coinvolta vi è quello di registrare dal vivo la Sinfonia n.5 di Mahler.

Ad affiancarla c’è una coppia di donne al suo fianco: da una parte l’affidabile Francesca (Noémie Merlant), segretaria personale, e dall’altra Sharon (Nina Hoss), moglie e primo violino nella sua orchestra. La sua pacifica e ormai soddisfacente vita nella città di Berlino rischia di cambiare quando Lydia riceve a casa il romanzo Challenge di Vita Sackville-West, inviatole da Krista Taylor, ex membro del programma dedicato alle borse di studio. Allo stesso tempo la conoscenza della russa Olga (Sophie Kauer), giovanissima e talentuosa violoncellista a cui dedica ogni attenzione, la riporterà su una strada percorsa in un passato che vorrebbe archiviare per sempre.

Tár: Lydia Tár è tante cose

Lydia Tár è solo una proiezione della mente del suo autore, Todd Field, pensata con lo scopo di essere portata in scena da Cate Blanchett. Lydia Tár invade lo schermo con la presenza monumentale di una delle più grandi attrici della sua generazione, ma in realtà (nella nostra realtà, s’intende) non esiste: è solo una teoria, concepita per ripensare alcune convinzioni. Eppure, viene mostrato ed esplicitamente specificato, “Lydia Tár è tante cose”: è una donna, prima di tutto, ed è una donna portata a indossare i panni del potere ai vertici di una struttura gerarchica. A livello visivo la sua orchestra è, come tutte le altre, un democratico semicerchio che converge verso la sua mano che dirige. Nei fatti, invece, Lydia Tár incarna la punta di una piramide in cui la disposizione inflessibile degli strumentisti rispecchia e ricalca quella di una società ancorata, come le divisioni fra primi violini e contrabbassi, viole e violoncelli, a schemi rigidi e a ripartizioni di classi tanto arbitrarie quanto inamovibili.

Field pensa e realizza un personaggio basato su nessuno ma comparabile a chiunque: la sua Lydia è protagonista di una biografia che non c’è, ma più che un personaggio di finzione somiglia a una persona in ogni angolazione, in ogni contraddittorietà e nelle innumerevoli sfaccettature che la rendono un essere umano rotondo. Lydia è un’eccellente direttrice e un eccellente direttore (nel suo fiero e allo stesso tempo sterile proclamarsi maschile) e rivendica quella questione linguistica per ribadire il suo magistero nell’unica possibile definizione di sé. Lydia è anche un’ottima madre che si dichiara padre e che rimbocca le coperte a sua figlia, ma allo stesso tempo si fascia di disonestà e abusi nei confronti che la propria posizione le permette di perpetrare nei confronti di coloro che si trovano nei ruoli subalterni rispetto al suo, nella vita e nell’orchestra. E Field ci tiene a ribadire, in ogni modo possibile, che tutte queste verità coesistono come parti strutturali dell’individuo, e che nessuna di queste è mai assoluta.

Cate Blanchett ddi profilo dirige un aorchestra

Per questa ragione “Tár” non traccia la moralista traiettoria del/della protagonista destinata alla fine di sé perché il marcio avrà il sopravvento sul buono, bensì perché il controllo manipolatorio sulla realtà è solo una grande e collettiva allucinazione dei signori e si tiene in piedi come un castello di carte. Perciò la regia di Field è geometrica, sobria; inquadra i tormenti e le lacerazioni psicologiche che attraversano la mente del personaggio, ma li contiene nella soffocante scatola di una perfezione formale pronta a implodere con movimenti repentini e tagli di montaggio inaspettati.

Lydia è il ritratto poliedrico e difficile di una donna che si batte per offrire l’unica narrazione di sé possibile e che, a casa sua (e non in pubblico), soccombe ai più indicibili incubi. Il potere di Lydia le deriva dall’aver saputo adeguarsi alle norme; per diventare la “prima direttrice della filarmonica di Berlino” si deve prima diventare uomo; e diventare uomo significa, per Field, fare propri i comportamenti e le personalità proprie delle figure che l’hanno preceduta e che, per ordine del mondo, sono tutte maschili (a voler sottolineare il sesso del potere).

Il sarto cuce la persona di Lydia addosso al suo corpo cercando di sintetizzare tutto questo, esprimendo le ambizioni di una persona che studia tutta la vita e si trasfigura di continuo per ascendere all’autorità e al dominio. Perfettamente espresso nella sequenza della reprimenda allo studente della Juillard, che si rifiuta di eseguire i maestri per via di questioni legate all’identità di questi, c’è tutto il discorso sull’ambivalenza che caratterizza l’essere umano in sé – condensato in Lydia Tar – e il mondo che forgia a sua immagine e somiglianza. Si vive in una dimensione in cui è possibile essere misogini e comporre la più bella sinfonia di sempre.

© Riproduzione Riservata

Federica Cremonini

Il Voto della Redazione:

9


Pubblicato

in

da

Tag: